di Roberto Mutti, Storico della fotografia
Fra classicità e audacia
La fotografia di architettura è un genere ben preciso dotato di caratteristiche che la rendono particolarmente riconoscibile: l’autore, infatti, si trova di fronte a soggetti che per le loro grandi dimensioni pongono in ripresa problemi tecnici di non facile soluzione e che si possono risolvere solo facendo ricorso a fotocamere professionali in grado di evitare ogni distorsione prospettica. Nella storia della fotografia italiana c’è in questo campo un’importante tradizione legata alle moltissime opere artistiche di cui il paese è ricco la cui documentazione fotografica è iniziata a fine Ottocento per opera di molti fotografi di valore come, tanto per ricordare i più noti, i Fratelli Alinari, Giacomo Brogi, Giorgio Sommer, Tommaso Cuccioni, Carlo Naya. Grazie alla loro puntigliosa opera tutti ebbero occasione di vedere paesaggi, palazzi, monumenti, vestigia del passato anche senza muoversi ed è il caso di ricordare che i libri d’arte diffusi nelle scuole italiane ancora negli anni Sessanta riportavano le fotografie Alinari per illustrare le opere d’arte che vi si citavano. Se dal punto di vista documentativo questo era e resta un importantissimo contributo, ben presto i contemporanei si sono chiesti che tipo di estetica sposare per non correre il rischio, riprendendo gli stilemi del passato, di apparire ripetitivi. La via di uscita è stata quella di una ricerca capace di allontanarsi gradualmente dalla pura documentazione per sconfinare nei limitrofi ambiti espressivi della creatività. Da questo punto di vista la cosiddetta Scuola di Düsseldorf diretta dai coniugi Becher è stata, con le sue riprese in bianconero frontali e rigorosamente essenziali, un punto di riferimento fondamentale anche in Italia come dimostra Ritratti di fabbriche, il lavoro che agli inizi degli anni Ottanta segna l’esordio di Gabriele Basilico. Se non proseguiamo l’analisi di un campo dove si sono poi affermati con proposte diverse autori come Olivo Barbieri, Vincenzo Castella, Mimmo Jodice, Luca Campigotto è perché Nicolò Quirico non va considerato un fotografo di architettura pur essendosi con questa confrontato con un approccio originale e suggestivo. Viste da lontano, infatti, le sue immagini sembrano puramente descrittive ma, osservate da vicino, rivelano inaspettatamente una complessa struttura frutto di una personalissima ricerca che tiene conto di molti piani espressivi ma risolve anche il problema della ripresa che per essere rigorosa non deve presentare distorsioni, linee cadenti e altri difetti. Accostando media differenti che fa dialogare fra di loro, Quirico pone come punto di partenza le riprese da lui stesso realizzate a singole porzioni dell’edificio e poi ricomposte in un collage che rimanda nella stessa misura anche alla grafica. Palazzi di Parole, questo è il nome dell’intero progetto che da tempo porta avanti, prevede infatti che le fotografie non vengano stampate come d’uso su una carta bianca ma su fogli di vecchi libri così che frammenti di frasi, sequenze di racconti, incipit di romanzi si sovrappongono alle architetture creando rimandi non casuali, anche se talvolta criptici o misteriosi, perché i libri sono stati scelti dall’autore in modo che creassero una sintonia con i soggetti ritratti. Le recenti immagini che costituiscono una ulteriore tappa di questa ricerca sono state tutte realizzate a Londra ponendosi così il problema, ben noto a progettisti e urbanisti ma conosciuto anche dall’opinione pubblica, del rapporto fra la classicità che si lega alla storia stessa della città e l’audacia progettuale che ne simboleggia il desiderio di guardare avanti, verso il futuro. Nicolò Quirico più che rispondere al quesito o porgere gli elementi per una analisi, dà un suo contributo regalandoci con le sue fotografie visioni dotate di grande equilibrio, indispensabile per creare accostamenti fra le facciate a mattoncini rossi e quelle di vetro e acciaio, fra gli edifici elisabettiani e i grattacieli, fra le antiche torri e le contemporanee piramidi luccicanti. Anche in questo caso non bisogna accontentarsi di osservare le fotografie da lontano e di apprezzarne l’attenta composizione: saranno gli osservatori più attenti e curiosi ad avvicinarsi alle opere per tentare di decifrare le parole che ne sono parte integrante. Già, perché certe frasi, certi dialoghi, certe esclamazioni – ci suggerisce l’autore – sembrano ancora aleggiare all’interno di questi palazzi conferendo loro una vitalità tutta da indagare.
LONDON CALLING
Catalogo ITA/ENG, 64 pagine, testo critico di Roberto Mutti
2014
LONDON CALLING
Milano, 2014
ARTEFIERA, Bologna, 2015